Barche da pesca del Trasimeno
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I pescatori del Lago Trasimeno utilizzano oggi una sola tipologia di imbarcazione a fondo piatto, realizzata in materiale plastico, in anni recenti, in due modelli, leggermente diversi tra loro per dimensione e forma, che richiamano quelli tradizionali. Queste barche sono condotte a motore fuoribordo o, in genere, a 2 remi. La scalmiera (in gergo cavijjóne), collocata presso la poppa (utilizzata per muovere il remo, allo stesso tempo per guidare e spingere), è collocata, in genere, sulla sponda destra (tranne che a Passignano e ad Isola Maggiore dove la troviamo inserita sulla sponda sinistra); la scalmiera centrale (utilizzata per spingere) si trova sulla sponda opposta.
Pianta di un toro da pesca sul Trasimeno, particolare – disegno di Matteo dall’Isola
Nel primo Novecento navigavano sul lago ben 5 modelli di imbarcazione realizzati con tavole di legno, a fondo piatto, diversi per dimensione, legati a funzioni e ad ambienti diversi, ma tutti derivati da una zattera (in gergo uscio), simile appunto ad una porta, con tavole longitudinali tenute insieme da assi trasversali (i dragóni), a cui erano poi collegate le altre componenti.
I barchini, che Matteo dall’Isola nella sua opera Trasimenide del 1537, chiama lintres, sono rimasti in uso fino ad anni recenti. Venivano utilizzati sui bassi fondali e all’interno dei canneti e mossi da un uomo solo, facendo forza sul fondo del lago con un palo o un remo (remata a puntóne o a pignóne). Erano lunghi non più di 4 m, con sponde basse e prua poco rialzata (figura n. 1). Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, quando ebbe termine la produzione delle barche tradizionali, il legno impiegato era, in genere, il larice. Le tavole, molto leggere, avevano uno spessore di circa 2 cm.
La barca a due remi, che Giannantonio de Teolis, detto il Campano, nella sua epistola Thrasimeni descriptio, del 1458, chiama caravella piccola, è rimasta in uso fino ad anni recenti. Lunga m 4,70-5,00 (figura n. 2), negli ultimi decenni della sua produzione artigianale era composta di tavole leggere di larice di cm 2,50 di spessore. Queste barche, condotte da uno o due uomini, non erano ritenute sicure per attraversare il lago.
Le barche spinte da 2 o 3 remi, in uso anch’esse fino a pochi decenni or sono, vengono chiamate dal Campano caravelle grandi. Leggermente più ampie delle precedenti, raggiungono la lunghezza di m 5,50-6,00 m (figura n. 3). Vengono utilizzate per spostamenti più lunghi e per operazioni in cui è necessaria maggiore stabilità e capacità di carico.
Nei primi decenni del secolo scorso erano ancora presenti al Trasimeno barconi realizzati con spesse tavole di quercia, le navi. Essi erano utilizzati per il trasporto dei materiali pesanti, delle persone e soprattutto per la pesca delle lasche nei pòrti (in gergo pesca-nave). Gli impianti fissi di cattura erano costituiti da lunghi corridoi d’acqua, perpendicolari alle rive, prospicienti gli abitati di Passignano, Torricella, Monte del Lago, S. Feliciano e La Frusta, chiusi ai lati da due palizzate di tronchi, ricolmi nel mezzo di strati di fascine di quercia e di erica, dove in inverno questa specie cercava riparo in gran numero. Le navi erano lunghe circa 10 m (figura n. 4) e presentavano una prua molto rialzata (2 m e oltre). Sulla testa delle sponde erano inchiodate una serie di assi. Su questi soprasponda erano presenti dei fori verticali ove venivano inserite delle staffe di forma cilindrica che costituivano il fulcro della manovra dei remi, lunghi m 4,50.
Imbarcazione di stazza intermedia, lunga circa m 7,00-7,50, era il barchétto del górro, necessario allo svolgimento della pesca con la grande rete a strascico in uso al Trasimeno sino alla metà degli anni Trenta del secolo scorso, da cui prendeva il nome. Il barchétto era costruito allo stesso modo della nave (figura n. 5), con la prua rialzata, ma con tavole di 4,00-4,50 cm di spessore. Come la nave, anche questa barca intermedia era in grado di affrontare la navigazione sul lago aperto e lo faceva con maggiore maneggevolezza e celerità.
Nel primo Cinquecento, e probabilmente fino alla fine del secolo, sul Trasimeno navigavano le imbarcazioni utilizzate nelle varie fasi di una grande pesca con impianti fissi per la cattura del pesce grosso (tinche, lucci e anguille) praticata al lago già nell’Alto Medioevo.
Grandi mucchi di fascine di quercia e rovere, di forma simile ad una piramide, venivano accatastati sul fondo del lago, a poche centinaia di metri dalle rive, per attrarre in inverno i pesci: erano chiamati tori. Questo nome deriva dalla voce latina torus, -i: in origine significava ‘protuberanza, rigonfiamento’, nel Medioevo assunse il significato di ‘collicello, piccolo rilievo’, in questo caso subacqueo. In estate, soprattutto tra luglio ed agosto, questi fasci, dopo essere stati appesantiti affogandoli nell’acqua bassa lungo il litorale, venivano caricati su dei barconi a fondo piatto lunghi 11 m e larghi sino a 3,50 (figura n. 6). Ogni Compagnia di pescatori di tori era composta da 8 uomini di fatica e da un capo barca (navarca). Gli uomini dovevano caricare la propria nave 12 volte per reinfrascare i 50-60 tori di loro competenza, aggiungendo nuove fascine verdi a quelle rimaste sul fondo del lago dall’anno precedente. Matteo dall’Isola scrive che quanto le navi cariche si muovevano lentamente verso il largo sembrava che delle isole galleggiassero sull’acqua.
In inverno si svolgeva la pesca vera e propria. Ciascun equipaggio partiva dagli approdi che era ancora buio. La nave portava a rimorchio un navigiolo, ovvero un’imbarcazione analoga per forma, ma più piccola e maneggevole della prima, utilizzata di supporto durante le complesse e faticose operazioni compiute dall’equipaggio (figura n. 5) che, come vedremo meglio in seguito, corrisponde al già citato barchétto.
La pesca di un toro richiedeva un’intera giornata di lavoro. I pescatori scioglievano le funi dell’ormeggio quando era ancora notte, al lume delle torce, per raggiungere all’alba lo spazio d’acqua ove si trovavano i propri tori sommersi. Il navarca scendeva sul navigiolo e guidava i rematori al fine di individuare la posizione precisa del mucchio prescelto per la pesca del giorno. Egli doveva ritrovare i riferimenti che a suo tempo furono presi a vista e appuntati in un quadernuccio. Egli aveva incolonnati, lungo almeno due direttrici ortogonali, un riferimento vicino (un albero sulla riva) e uno lontano, sullo sfondo (una torre) (figura n. 8). Questa operazione era detta in gergo prendere l listro (ovvero le mire). Il metodo era molto preciso. Bastava scostarsi di pochi metri dal punto di incrocio per non vedere più allineate le coppie dei riferimenti. Il navarca, preso bene l listro, calava nell’acqua una lunga pertica saggiando le proporzioni del toro. Se con il suo legno, toccando le fascine, coglieva un fremito, un tremore, era questo un buon segno: poteva significare che la catasta dei fasci era frequentata da molto pesce. Il capo barca chiamava allora i compagni. Il grande barcone, con tutte le attrezzature (pali, pertiche, reti, aste uncinate, rastrelli, forche, ganci…) raggiungeva il luogo indicato: la pesca poteva avere inizio.
– Figura 8. Pianta di un toro da pesca nel primo Cinquecento con i riferimenti a terra necessari alla sua individuazione. Fase dello smantellamento del mucchio delle fascine che vengono caricate sulla nave. Disegno di Matteo dall’Isola, tratto dalla sua opera Trasimenide del 1537. (Biblioteca Augusta di Perugia, ms. 1085, II Libro, 62 r.).
Le sue varie fasi erano molto lunghe e faticose, da compiere in un ambiente ostile e con un clima rigido. Il mucchio delle fascine, con il suo contenuto di pesci, veniva circondato piantando profondamente nel fango del fondale una serie di robusti pali. Gli uomini infiggevano profondamente nei legni dei ganci di ferro dalla parte rivolta verso il toro. A circa mezzo metro di altezza, fuor d’acqua, vi appendevano poi due grandi reti di canapa a maglie molto strette, chiamate travencole o travencule, alte circa 9 m e lunghe in totale quasi 80, che cucivano tra loro con una cordicella di giunco. L’altra estremità di esse, legata in più punti con delle funi, veniva fatta scendere lungo i pali e in parte distesa sul fondo del lago. Le corde erano poi appuntate alle altre pertiche che componevano la seconda palizzata circolare, di diametro inferiore alla prima, che i pescatori avevano piantato ad alcuni metri di distanza.
Fatto questo, il cumulo dei fasci veniva smantellato completamente; gli uomini accatastavano più volte le fascine grondanti d’acqua sulla nave e poi le gettavano al di là dei tronchi del circuito esterno. Si costruiva così la base del toro per l’anno successivo. Intanto i pesci, impauriti, schizzavano via in ogni direzione, ma non potevano uscire dalla camera di rete.
Sulla sommità dei pali del circuito esterno i pescatori avevano legato delle fascine. Era questo il momento per farle discendere a mezz’acqua. I pesci potevano ritrovare così, nel volgere di poche ore, intorno a queste fronde, un ambiente a loro noto e si calmavano disponendosi lungo la rete. Intanto gli uomini, saliti tutti sul navigiolo, erano usciti dal circuito e, toccata terra, avevano acceso il fuoco; mentre si asciugavano le vesti e si riscaldavano le membra gelate, i pescatori consumavano un frugale pasto.
Nel pomeriggio tutti rientravano all’interno dell’impianto da pesca, disponevano le imbarcazioni nello spazio centrale, lungo la palizzata interna, e poi sollevavano rapidamente le funi e con essere la rete che fermavano ai pali. Il pesce era così tutto racchiuso all’interno di un’enorme borsa circolare (figura n. 9).
Mentre la nave veniva fatta entrare tra le due palizzate e gli uomini recuperavano la rete staccandola dai ganci posti sui pali, dal navigiolo di pensava a tirar fuori dall’acqua le fascine che erano state calate in precedenza. Il circuito di rete pian piano si riduceva e il pesce era costretto in uno spazio sempre più esiguo.
Alfine, entrambe le imbarcazioni si stringevano. Il pesce saltava e l’acqua ribolliva nell’esaltazione generale. Gli uomini, a più impulsi, travasavano con attenzione le prede in un sacco di rete, il mutilo. Dopo aver smontato le palizzate, i pescatori tornavano finalmente verso casa portando legata alla poppa del barcone la sacca con i pesci catturati. Era ormai il tramonto quando scendevano a terra; subito travasavano i pesci in dei grandi cestoni di vinco, i bacai, che consentivano di mantenerli alcuni giorni vivi nell’acqua fino al momento della loro destinazione; stendevano poi le reti ad asciugare. Solo allora potevano mangiare e riposare, sognando -scrive Matteo- le catture del giorno seguente. Stanchi com’erano non potevano nemmeno godere dei piaceri coniugali.
Nella sua lettera a Pandolfo Baglioni il Campano afferma che erano presenti sul lago 40 navi e 2.000 tori. Matteo scrive che intorno al 1480, ai tempi di Papa Sisto IV, il numero delle navi e delle relative Compagnie era sceso a 36 (12 navi e relativi equipaggi aveva I. Maggiore, 8 Passignano e I. Polvese, 2 Zocco, 4 Monte del Lago e 2 S. Feliciano), mentre ai suoi tempi la flotta dei barconi del lago era ridotta a 30 elementi. Il livello del lago nei primi decenni del Quattrocento era salito notevolmente mettendo in difficoltà i pescatori. Occorrevano pali sempre più lunghi e reti sempre più grandi per cingere il toro. La tendenza in atto era quella di ridurre il numero delle strutture, ingigantirle e avvicinarle a terra. Il letterato laghigiano scrive che ai suoi tempi si costruivano navi ampie fino a 5 m e mezzo (figura n. 7), delle vere e proprie chiatte. Serviva evidentemente una capacità di carico maggiore. Gli impianti da pesca raggiunsero a quel tempo un diametro di circa 26-27 m; i pali utilizzati erano lunghi 10 m, dei veri tronchi d’albero. In questi tori -riferisce sempre Matteo- non era difficile compiere catture di 5.000 libbre di pesce (16,50 q). Le fatiche dei pescatori divennero alfine insostenibili.
Nel 1580 fu stampata una carta del territorio perugino del grande geografo e matematico Ignazio Danti. Davanti Passignano troviamo rappresentati gli impianti dei tori (figura n. 10). È l’ultima volta che ne abbiamo notizia. Probabilmente, durante la grande piena conosciuta dal lago sullo scorcio del Cinquecento, che durò ben 12 anni ed ebbe il suo culmine nel 1602 (figura n. 11), questa pesca non venne più praticata. La sua memoria è solo negli antichi documenti; la tradizione orale la ignora.
Nel corso del Seicento Isola Maggiore, che era stato il centro peschereccio principale per la pesca dei tori, perse gran parte della sua popolazione; Isola Polvese, anche per cause di guerra, si spopolò completamente. Tante attrezzature da pesca nel 1643, durante la Guerra di Castro, furono rovinate e distrutte. Avvenne un vero terremoto nella gerarchia dei centri pescherecci del lago. San Feliciano, prima centro minore, divenne il principale per la cattura del pesce grosso. Poteva contare, infatti, sulla profonda insenatura sud-orientale del lago, nota come La Valle, ove erano presenti gli unici impianti fissi rimasti per la cattura delle anguille, e a tempo debito anche dei lucci e delle tinche, le arèlle.
Questo sconvolgimento coinvolse in parte anche la navigazione sul lago. Finita la pesca dei tori, le navi gigantesche del Cinquecento furono in breve abbandonate. Rimasero in uso solo imbarcazioni idonee al trasporto dei materiali e alla pesca nei pòrti alle lasche che non necessitavano di grande stazza. I barconi utilizzati per questa pesca, di cui abbiamo documentazione tra Otto e Novecento, avevano una lunghezza di 10 m e una larghezza massima di 2 m e mezzo.
Del navigiolo si perse il nome, ma non l’uso, legato ormai soprattutto alla pesca con la grande rete a strascico. Questa imbarcazione intermedia, nominata già nei documenti perugini del sec. XIII e XIV, ha avuto continuità di utilizzo sino al primo Novecento. Un esemplare, trasformato per diporto, è ancora visibile davanti all’ingresso del Museo della pesca di San Feliciano.
Ma andiamo a scoprire -grazie sempre a Matteo dall’Isola- qualche ulteriore dettaglio sull’imbarcazione principale utilizzata nella pesca dei tori. La nave era costruita con spesse tavole di pino. Il letterato di Isola Maggiore disegna il barcone nella sua opera Trasimenide e scrive che ne riproduce le forme in modo preciso (figura n. 8). La nave del Trasimeno aveva il fondo piatto (non a forma di ventre come le imbarcazioni marine) che le conferiva buona stabilità e capacità di carico, favorita da una poppa bassa e ampia, che chiamavano sgabello, un comodo sedile per le fanciulle. Le sponde erano alte non più di 2 piedi (73 cm circa). La connessione tra le spesse tavole che le costituivano era ottenuta con anse di ferro che garantivano stabilità per molti anni. La prua, molto lunga e stretta, sorgeva come un arco teso ed era fornita anteriormente di un rostro appuntito ove venivano raccolte spire di funi.
Alla base della prua spuntavano su entrambe le sponde delle forme ricurve, simili a grandi “orecchie”. La loro funzione non è chiara. Forse servivano da appoggio, ma la presenza di analoghe protuberanze di dimensioni ridotte presso la sommità della prua farebbe pensare piuttosto ad una decorazione con significato simbolico, che in effetti si è tramandata fino al secolo scorso ed è presente in tutte le imbarcazioni di stazza media e grande (barchétti del górro e navi).
Gli scalmi erano 4, disposti 2 per sponda, fatti di legno, ben arrotondato, della forma di ampie forche rovesciate. Essi venivano inseriti a forza e assicurati battendoli con delle pietre entro dei grossi fori realizzati ogni due piedi, probabilmente all’interno di spessi e ampi soprasponda. Questo sistema consentiva di spostare la posizione dei remi a seconda di quella del carico.
I remi, lunghissimi, erano fermati agli scalmi con degli stroppi di forma circolare, fatti con una treccia di fusti, a sezione triangolare, di giunco quadréllo (Scirpus maritimus), che galleggiava perfettamente nell’acqua ed era possibile facilmente recuperare. Gli uomini di fatica, addetti alla manovra, facevano forza in 2 su ogni remo tirandolo a sé.
Un barcone di questa stazza è stato utilizzato nel secolo scorso dai proprietari dell’Isola Polvese ove è rimasto sino agli anni Ottanta. Nel 1937 con esso fu compiuta la semina degli avannotti di coregone vicino ad Isola Polvese e ad Isola Maggiore da parte del Consorzio pesca e acquicoltura del Trasimeno, diretto a quel tempo da Enelindo Danesi di Castiglione del Lago. Le foto che vengono presentate (figura n. 12; figura n. 13; figura n. 14 e figura n. 15) ci restituiscono un’imbarcazione che corrisponde quasi perfettamente a quella descritta da Matteo dall’Isola 400 anni prima. Manca il rostro e per quanto concerne la scalmatura troviamo dei fori isolati sui soprasponda ove venivano inserite le staffe. La capacità di carico di questo barcone era veramente notevole. Accoglieva la macchina per battere il grano o il carro agricolo con una coppia di buoi e l’intero carico di sacchi pieni di cereali. Coloro che hanno visto partire dalla riva il barcone di Isola Polvese ricordano che i primi colpi di remo non riuscivano a metterlo in movimento; solo dopo ripetuti sforzi l’imbarcazione cominciava a muoversi in modo appena percettibile. Sono molto evidenti dalle foto le grappe di ferro che cucivano le tavole delle sponde, la prua molto rilevata e la poppa bassa che favoriva il carico e lo scarico dei materiali. Lo spessore del legname utilizzato raggiungeva la misura di almeno 8 cm. Il soprasponda era composto da assi ampie 15-20 cm e lunghe 100 circa.
I soprasponda dei barconi del Cinquecento erano certo ancora più robusti, visto che dovevano accogliere non i piccoli fori delle staffe ma quelli più ampi necessari ad inserire le forche rovesciate di legno, e sopportare l’azione di remi molto lunghi, tirati ciascuno da 2 uomini.
Della nave otto-novecentesca, come abbiamo detto, inferiore per stazza a quella del Cinquecento, sono disponibili molte foto, facili da trovare nelle pubblicazioni sul Lago Trasimeno (figura n. 16; figura n. 17 e figura n. 18).
Trasimeno fine ‘800 nave a Isola Maggiore Trasimeno fine ‘800 nave a Isola Maggiore
– Figura 17. Nave di fine Ottocento in partenza da un molo in pietra di Isola Maggiore con 5 remi in acqua.
Foto Fratelli Alinari, Firenze, agosto 1896. (Da Mormorio, Toccaceli 1990: 86).
fine ‘800 Trasimeno, nave a Monte del Lago fine ‘800 Trasimeno, nave a Monte del Lago
– Figura 18. Nave di fine Ottocento ormeggiata presso Monte del Lago. Particolare della prua. Foto Giugliarelli, primi anni Dieci del Novecento. (Da Mormorio, Toccaceli 1990: 50).
1910 navigiolo/barchétto all’Isola Minore
Figura 19. Navigiolo/barchétto ormeggiato presso un molo doppio in pietra dell’Isola Minore. Foto di anonimo, 1910 ca. (Da Mormorio, Toccaceli 1990: 13).
Quanto poi al barchétto del górro (ex navigiolo) ne possiamo osservare con un buon dettaglio un bell’esemplare, adattato per il trasporto delle persone, in una foto di circa un secolo fa, presa al molo doppio in pietra di Isola Minore (figura n. 19). Per le ragioni suesposte quello che vediamo non dovrebbe essere molto diverso da un navigiolo in uso nel Basso Medioevo o all’inizio dell’Età Moderna. È interessante soprattutto la scalmatura che presenta: abbiamo due grandi cavijjóni accoppiati con relativi ròcci e remi inseriti sulle due sponde presso l’attacco della prua, utilizzati per la remata in croce. Si notano poi dei soprasponda dove sono inserite due staffe, una a metà circa della sponda destra, l’altra presso la poppa sull’angolo sinistro, nella posizione tipica che troviamo nelle barche di Passignano e di Isola Maggiore. Sono ben evidenti anche le caratteristiche coppie di “orecchie” che emergono prima dell’attacco della prua e alla sua sommità. L’immagine successiva (figura n. 20), che si riferisce al litorale di Passignano, è coeva alla precedente. Vediamo al centro un barchétto del górro ormeggiato a riva e sulla destra, presso il pontile, il sacco terminale (codelo) di un górro appeso ad asciugare. L’ultima foto, del 1908 (figura n. 21), mette a confronto la stazza delle navi otto-novecentesche con quella dei barchétti del górro (ex navigioli).
Navigiolo-barchétto ormeggiato sul litorale di Passignano sacco terminale del gorro appeso ad asciugare
barchétto del górro ormeggiato a Passignano
Figura 20. Navigiolo/barchétto ormeggiato sul litorale di Passignano. Cartolina della serie “L’Umbria Illustrata” di Tilli-Giugliarelli di Perugia, 1910 ca. (Collezione privata Foto GIM, Passignano sul Trasimeno).
Invito caldamente l’Associazione Arbit di Castiglione del Lago, che ha promosso questo incontro, a valutare l’opportunità di ricostruire in scala 1:1 le imbarcazioni utilizzate nella pesca dei tori nel primo Cinquecento. I dati forniti dal Campano e soprattutto da Matteo dall’Isola, insieme al ricco patrimonio fotografico relativo ad imbarcazioni della fine dell’Ottocento e del primo Novecento che -come abbiamo visto- differiscono molto poco da quelle che navigavano 4 secoli prima, sono sufficienti a garantire il successo di questa impresa. La nave e il navigiolo del Cinquecento potrebbero fare bella mostra di sé presso la ricostruzione, sempre in scala 1:1, di un toro del primo Cinquecento, che è in programma negli spazi esterni del complesso museale dell’ex aeroporto Eleuteri di Castiglione del Lago. L’attività di un piccolo cantiere rivestirà un grande interesse dal punto di vista didattico: l’idea di “museo diffuso”, a cui si pensa per valorizzare le opportunità offerte dal territorio del Comune di Castiglione del Lago, troverà qui un’ottima occasione per recuperare antichi mestieri e far conoscere attività e tecniche tradizionali di costruzione e di remeggio proprie del Lago Trasimeno, coinvolgendo appassionati e pescatori locali.
Ringrazio per la collaborazione offerta Giorgio Giorgini dell’Associazione ARBIT di Castiglione del Lago e Claudio Marinelli di S. Feliciano.
1908 gare di nuoto a Passignano sul Trasimeno
1908 navigioli/barchétti a Passignano sul Trasimeno 1908 navi per la pesca delle lasche a Passignano sul Trasimeno
Figura 21. Passignano sul Trasimeno, 8 luglio 1908, Gare di nuoto. Al centro dell’immagine una serie di navigioli/barchétti, a destra, alcune navi per la pesca delle lasche. Significativo il confronto tra la stazza delle due imbarcazioni. Cartolina della serie “L’Umbria Illustrata” di Tilli-Giugliarelli di Perugia. (Da Mormorio, Toccaceli 1990: 4).